Movimento
lento.
di
Wu Ming 2
Se
inserite in un motore di ricerca la parola “lentezza”, il risultato è una lista
di siti che propongono di vivere, viaggiare, lavorare, mangiare fuori tempo
rispetto ai ritmi incalzanti della quotidianità. Dietro questa comune
rivendicazione, però, si nascondono e spesso si mescolano due visioni del tutto
differenti. Da una parte, quella di chi vuole ritardare l’arrivo del futuro e
quindi considera la lentezza come una sorta di macchina del tempo, capace di
riportare in vita gli aspetti più sani di un passato ormai perduto. Dall’altra,
quella di chi ritiene che nessun cambiamento reale, e dunque nessun futuro
vivibile, possa prodursi senza una rottura del tempo.
Credo
che l’approccio più utile e fecondo al tema della lentezza, consista nel
sottolineare questa seconda prospettiva, evitando di farsi contagiare dalla
prima. I bei tempi andati in cui la vita seguiva un altro ritmo erano infatti
tempi di schiavitù, di mortalità infantile, di piccole città stato sempre in
lotta tra loro, di donne confinate in casa, di lavoratori senza diritti. In
poche parole: erano bei tempi, forse, soltanto per un pugno di privilegiati che
se li potevano permettere.
Se
l’apologia del passato suona reazionaria e stucchevole, non sempre le cose
vanno meglio con l’evocazione del futuro. Il più delle volte finiamo per
raccontarcelo come una semplice proiezione del presente, dritta davanti a noi a
distanza di tempo, ovvero come un presente invecchiato, che di conseguenza non
scalda il cuore a nessuno.
Le
continue, frenetiche innovazioni tecnologiche ci danno l’impressione di un
mondo che cambia a ritmi velocissimi, anche se spesso quelle innovazioni non
sono altro che obsolescenza programmata, merci pensate per diventare vecchie
prima di consumarsi, così da alimentare un paradossale “consumo senza consumo”.
Il classico cambiamento che non cambia nulla e anzi riproduce il sistema di cui
è figlio, il solito tran tran. In questo senso la frenesia è davvero il contrario
dell’utopia. Perché chi si lascia incalzare dal presente è incapace di pensare
il futuro, se non come “presente invecchiato”, presente spruzzato di morte. La
lentezza invece dovrebbe essere soprattutto questo: darsi il tempo di
desiderare un altro tempo, un altro stato di cose, diverso da quello presente.
Si potrebbe dire che essa è necessaria come impulso utopico, ma non è
sufficiente come programma. Anzi, spesso è proprio nel passaggio della lentezza
da impulso a programma, da stimolo per pensare un mondo nuovo a chiave di volta
per costruirlo, che nasce la confusione tra i due approcci di cui sopra.
Il
capitalismo si è imposto come sistema produttivo imponendo sulla vita un unico
tempo: quello del lavoro. La diffusione degli orologi ha sancito questa
distruzione della crono-diversità: il tempo del pasto diventa la pausa-pranzo
di un’ora, il tempo di una pisciata in fabbrica viene quantificato, il tempo
libero è dalle-alle. Non contento, nella sua fase più tardiva il capitalismo si è mangiato anche lo
spazio: ormai siamo tutti dentro la globalizzazione, in cerca appunto di spazi
alternativi, liberati, utopici. Ma non basta liberare lo spazio, se il tempo
rimane schiavo. Occorre creare una doppia discontinuità: nel tempo e nello
spazio. Non a caso, uno dei movimenti alternativi più interessanti degli ultimi
vent’anni – i NoTav della Val di Susa – proprio su questa doppia articolazione
hanno costruito il loro successo. Radicamento sul territorio, presidi, marce,
luoghi simbolici (cioè un altro spazio) insieme al rifiuto delle scadenze
imposte dai cantieri, con vent’anni di mobilitazione ad libitum, pazienza,
racconto, critica, riscoperta della Storia (cioè un altro tempo).
E’
chiaro che l’importanza di queste due variabili dipende dal fatto che la nostra
stessa vita si svolge nello spazio-tempo e sarebbe impensabile all’infuori di
esso. Tuttavia, c’è una particolare attività nella quale queste due dimensioni
della nostra esistenza sono coinvolte in maniera molto evidente: il movimento.
Attraversare un certo spazio in un certo tempo. Per questo credo che il
movimento lento – camminare, pedalare – sia l’esperienza che più di ogni altra
può trasmetterci l’impulso utopico a desiderare un altro futuro. Abbiamo
bisogno di prendere coscienza della nostra frenesia e di quello che essa ci fa
perdere e ci occulta. Ma per farlo dovremmo riuscire a guardarci da fuori, e
questo non è affatto facile, se rimaniamo immersi nel byt, la parola che in
russo indica la quotidianità. Se vogliamo immaginare un beat diverso – un altro
ritmo e un altro tempo – dobbiamo prenderci una pausa dal byt. Camminare può
essere questa pausa. Soprattutto: camminare attraverso spazi che ormai sono
pensati per altri tempi, per altre velocità. Andare a piedi da Bologna a
Firenze, il “collo di bottiglia” d’Italia, dove si concentrano due autostrade,
tre statali, quattro linee ferroviarie. Costruire un sentiero da Bologna a
Milano – come stiamo cercando di fare sul nostro blog – per imparare a leggere
il paesaggio di quella Grande Pianura che ormai consideriamo tabula rasa, buona
giusto come piedistallo per capannoni, outlet in forma di villaggio, villette a
schiera e infrastrutture. Perché camminare, – immergersi nel territorio senza
la mediazione di un finestrino, liberi di guardarsi intorno, privi di ostacoli
da evitare al volo, – ci consente soprattutto di rallentare e approfondire lo
sguardo. Di capire che il futuro è davanti a noi, ma non lo si raggiunge
correndo in linea retta. Occorre scartare, deviare, scoprire passaggi sghembi e
segreti, come un viandante che cerca il suo sentiero, perché sa che esiste,
magari nascosto, e per questo in tanti lo chiamano utopia
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